Sintesi dell’intervento dell’assessore all’agricoltura della Provincia di Napoli, Enzo Falco
Cosa sarebbe la Penisola Sorrentina senza le pagliarelle a protezione della limonicoltura? Cosa sarebbero i Campi Flegrei senza la vite, peraltro, ancora su piede franco perché, dato il terreno vulcanico, non fu distrutta dalla fillossera? Cosa Ischia senza i vigneti a 600 metri d’altezza? Cosa perderemmo se non avessimo, qui, proprio in Campania, il più ricco e ampio panorama ampelografico fatto di svariati vitigni che sono solo qui? Cosa sarebbe il Vesuvio e lo stesso Parco Nazionale senza le 80 diverse cultivar di albicocche? Senza i pomodorini al piennolo? Senza il Lacrima Christi? Che cosa sarebbe Napoli senza la vigna di San Martino o Chiaiano senza le sue ciliegie, senza la piccola ma significativa agricoltura in città che da via Stadera, passando per le colline, i Camaldoli arriva fino a Posillipo?L’elenco potrebbe essere lunghissimo e potrebbe riguardare tutti i diversi territori in Provincia di Napoli o della Campania e perché no del mondo intero.Il mondo non sarebbe uguale; perderemmo qualcosa che non è solo il piacere di un gusto che ci piace perché diverso in ogni luogo; perderemmo un patrimonio di biodiversità che è straordinario; perderemmo un patrimonio di conoscenze antico quanto il mondo; perderemmo la nostra stessa identità di persone, artefici positivi della propria storia, anche e soprattutto nel mantenere, in una logica non statica ma dinamica, la bellezza dei nostri paesaggi.Eppure, negli ultimi 50 anni abbiamo perso circa 300 specie vegetali. L’alimentazione è legata a solo 30 specie vegetali e progressivamente si rischia di perdere un patrimonio di sapori e di saperi che è stato costruito in millenni di storia.Il rischio, che peraltro si appalesa come un’ulteriore guerra tra gli Stati Uniti e l’Europa sulla commercializzazione dei cibi geneticamente modificati, è di perdere ulteriormente terreno.Il problema è sempre, purtroppo, legato ai grandi interessi delle multinazionali che vogliono il controllo del mercato mondiale dell’alimentazione costringendoci a mangiare cose che non sanno di niente o tuttalpiù che hanno tutte lo stesso sapore. Come dire, mangiamo sempre hamburger fatto con carne dello stesso sapore, insalata uguale dappertutto, vino che sa sempre di nulla. Vogliono rubarci anche l’anima. In nome di un business che riguarda e riguarderà sempre e solo pochi gruppi di potere economico.Scomparirà la mela annurca e i melai dove vengono arrossate, scomparirà la ciliegia di Chiaiano, scompariranno i friarielli. Assieme a loro scompariranno le identità territoriali ed anche gli uomini e le storie che hanno nel tempo costruito quelle identità.Viene in mente la storia di Mario D’Ambra, splendidamente scritta da Manuela Piancastelli per Veronelli Editore. La storia di un uomo che ha fatto grande l’enologia ischitana e ha rischiato di perdere tutto per un accordo commerciale con una multinazionale svizzera che era interessata (al business in particolare) all’acqua termale più che al vino e aveva costretto l’azienda addirittura a fare un vino “vergognoso” per il mercato americano, snaturando la vera forza del vino ischitano che è quello di essere espressione vera di un territorio, bellissimo, affascinante costruito da uomini che hanno versato lacrime e sangue per farlo diventare quello che è oggi, con i suoi 8 km di muretti a secco (le parracine) senza i quali Ischia non sarebbe la stessa con grave nocumento non solo per la viticoltura ma anche per lo stesso turismo.L’agricoltura, la cultura della ruralità non è importante solo ed esclusivamente per i beni prodotti, ma ha un valore storico, naturalistico, ambientale, paesaggistico, di manutenzione del territorio, di presidio del territorio.Ecco che allora la strada da seguire non è solo quella di opporsi ad un modello di sviluppo che aggredisce,distrugge, snatura, in nome di una ricchezza che riguarda pochi. Il modello da seguire è quello di guardarsi indietro, recuperare le fortissime identità storiche dei luoghi, le colture che hanno da sempre caratterizzato quei luoghi, rifarli diventare belli, rimettere amore nella cura di noi stessi e quindi in ciò che ci circonda.Dobbiamo incominciare ad abbattere i “mostri” che sono nei nostri territori e che sono altresì in noi stessi; dobbiamo recuperare i nostri casolari (possibilmente in funzione agrituristica) perché rappresentano un valore storico ed architettonico straordinario; dobbiamo ripristinare, ad esempio, le viti maritate ai pioppi, ripristinare la coltivazione del pomodoro San Marzano, delle albicocche vesuviane, dei pomodorini al pieno, dei friarielli, dei mille diversi fagioli, delle mille pere, delle mille mele. Dobbiamo ritrovare il piacere ed il gusto di mangiare il pane che sa di pane, dei cocomeri che sanno di cocomeri, della frutta che sa di frutta, del pesce azzurro che non può che essere fresco a differenza di tantissime specie che invadono in modo omologante i nostri mercati. Ma dobbiamo avere chiara l’idea che questi buoni prodotti, consumati nella stagione giusta, devono costare un po’ di più e questo qualcosa in più deve rimanere nelle mani dei piccoli agricoltori che in tutto il mondo hanno fatto una scelta d’amore ma che non possono essere penalizzati per questo. L’amore che mettono nei loro prodotti lo ritroviamo esattamente nei sapori e nella sicurezza alimentare e quindi è giusto restituire loro il riconoscimento economico e sociale che gli spetta. Ma quest’amore lo ritroviamo anche nel valore estetico del paesaggio che riescono a costruire e a difendere.Attenzione, non si sta proponendo di tornare indietro nel tempo, all’età della candela. Anzi, questo processo di recupero dei prodotti, del patrimonio rurale e storico passa anche attraverso l’innovazione tecnologica, la ricerca scientifica e la modernizzazione. Sarebbe impensabile ripristinare la coltivazione della canapa (che ha una storia stupenda in Campania) e tornare alle immani fatiche di una volta quando c’erano i “lagnatari” che facevano innumerevoli immersioni sott’acqua per sommergere i fasci di canapa per farla macerare. Dobbiamo lavorare insieme per cercare soluzioni certe e naturali anche in termini di sicurezza e dignità dei lavoratori della terra. Ma non possiamo cedere alle lusinghe del prodotto alimentare “industrializzato” che ci porta ai danni della “mucca pazza” o ai prodotti alla diossina. Sulla nostra salute non c’è negoziazione possibile.Bisogna ritornare ad un concetto di sviluppo che dia certezze, duri nel tempo, anche a beneficio delle future generazioni, che sia armonico con la natura, che dia piacere, felicità e qualità della vita. L’agricoltura assume quindi valori che prescindono dalla semplice produzione e assume una connotazione di servizio pubblico. In alcune valli alpine del Trentino Alto Adige dove i prati hanno d’estate un attraente e riposante colore verde grazie agli agricoltori che li falciano ripetutamente, peraltro su pendii ripidi particolarmente difficili, il loro lavoro viene remunerato da un intelligente intervento finanziario pubblico, proprio come riconoscimento di un servizio pubblico reso. Il valore estetico di quei prati verdi è anche valore economico perché richiama turismo, desiderabilità residenziale. Ma il paesaggio non è un valore statico, non si può limitare l’applicazione di tecniche colturali che lo modificano determinando valori estetici nuovi perché sono realtà vive. Pensiamo alla zona del Chianti classico dove il paesaggio è molto cambiato con l’affermarsi della viticoltura specializzata. E’ cambiato il paesaggio, che, comunque, si è arricchito, ma ha portato benefici socio-economici all’intero territorio.Gli agricoltori vanno sostenuti ma lasciati liberi di fare le scelte che rendono remunerativa l’agricoltura in quanto una gestione conservativa del paesaggio è concettualmente astratta per non dire impossibile. Gli alberi secolari di ulivo non possono essere più redditivi ma hanno un grande valore storico ed estetico che, evidentemente, va mantenuto attraverso un intervento pubblico perché è un bene pubblico il godimento di quella bellezza paesaggistica. Non sempre,però, la percezione del paesaggio agricolo è positiva. Pensiamo alla coltivazione del girasole che, quando è in fioritura, è bellissimo, tanto da ispirare i grandi pittori, ma all’epoca della raccolta la pianta diventa scura e sgradevole. E’ il caso anche di un campo di papaveri rossi che, pur avendo ispiranto i più grandi artisti, è sinonimo di cattiva coltivazione. Immaginiamo l’impatto negativo di tutte le serre di plastica, le coperture varie, le reti antigrandine che consentono la remuneratività delle attività agricole (è il caso delle serre che hanno determinato ricchezza nelle province di Savona, Napoli e Ragusa), ma sono brutte dal punto di vista paesaggistico. Pensiamo alle modifiche irreversibili portate dall’esodo dalle campagne nel dopoguerra, la tecnica di “set-aside” (non coltivazione dei fondi) per evitare le eccedenze alimentari, la riforma fondiaria che ha stravolto ambiente e paesaggii millenari per poter conseguire un’agricoltura più intensiva, o l’eliminazione della mezzadria.Ecco allora che bisogna trovare il giusto mix tra politiche di salvaguardia del paesaggio, in termini di tutela attiva e non di salvaguardia acritica, di sostegno all’agricoltura e di costi economici per garantire il valore estetico di un territorio che ha continuo bisogno di “manutenzione”, non solo per mantenere quel gradimento ma anche per non determinare le continue emergenze che, purtroppo, quando si verificano, costano alla comunità di gran lunga di più.Un’ultima riflessione su quanto è stato elaborato dal punto di vista normativo.L’Italia ha iniziato a legiferare sull’argomento a partire dal 1905 con un provvedimento specifico sulla pineta di Ravenna. Poi sono seguite: la legge 688/1912 che ha esteso la tutela a parchi e giardini così come per le opere d’arte; poi la l.778/1922 per le bellezze naturali presentata dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce; infine la l.1497/1939 e la l.431/1985 (cosiddetta Galasso) che hanno trovato una sintesi nel D. Lgs. 490/99. Il 1998 fu dichiarato dal Consiglio d’Europa anno del paesaggio.Nel 1999 c’è stata la conferenza nazionale per il paesaggio promossa dal Ministero dell’ambiente.Sempre nel 1999 a Postdam è stato elaborato lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo.Nel 2000 a Strasburgo è stata approvata la Convenzione Europea sul Paesaggio che, nonostante non sia stata ancora ratificata dal nostro Paese, rimane un punto di riferimento fondamentale per una interpretazione chiara del nesso tra paesaggio e governo del territorio.A fronte di questa produzione che ha determinato un rinnovato interesse su questo grande valore, ci sono azioni contraddittorie di intervento nel merito, in quanto nel 2001 l’Accordo tra Ministero dei Beni Culturali e le Regioni, al di là di una sottovalutazione del Ministero dell’ambiente e del Ministero delle Politiche Agricole perché non è stato considerato il ruolo ambientale svolto dalla settore agro-silvicolo, parla di “pianificazione paesistica”.E’ preoccupante questa concezione di pianificazione generale del paesaggio in quanto, per le cose sopradette, il paesaggio non può che essere la risultante dell’evoluzione naturalistica, delle azioni antropiche, della storia e della cultura. La pianificazione (il piano) impone le scelte dettate dall’alto ed obbliga a seguirle; altra cosa è la programmazione che rientra in un progetto strategico orientativo per il raggiungimento volontario di determinati obiettivi socio economici.D’altro canto come diceva Croce “il giudizio estetico su un paesaggio resta sempre legato alla sfera soggettiva, alle idiosincrasie del singolo, ed è espressione di semplice gradimento, come può esserlo un cibo o un vino”.Immaginare burocrati che valutano la coerenza di un intervento di innovazione colturale, così come è avvento nel Chianti, con uno strumento di pianificazione già dato fa rabbrividire.Altra cosa è il “governo del territorio” che tiene conto delle evoluzioni e del sistema economico sociale che può garantire il mantenimento e/o il miglioramento di quel paesaggio che alla fine risponde alla necessità del valore estetico, ma anche al complesso di valori che un territorio nel suo complesso ha. A partire dal riconoscimento sociale e di un giusto reddito agli agricoltori, a partire da una integrazione tra i diversi settori economici, a partire da una più forte partecipazione dei cittadini ai processi decisionali quali quelli garantiti dall’Agenda 21 locale, nata a Rio De Janeiro nel 1992 come risposta agli squilibri dello sviluppo economico, a partire dalla possibilità di costruire nuovi modelli di “governance” per i nostri territori.